Alvi è una piccola frazione del comune di Crognaleto, il borgo più volte ricostruito dopo terremoti e movimenti franosi che si sono susseguiti dal ‘700 in poi, venne denominata “Napoli P’ccirll” dal primo contigente borbonico che giunse sul posto, perché la sua disposizione geografica e le sue viuzze animate, piene di bambini vivaci la facevano somigliare ai quartieri spagnoli della capitale del Regno. Nel medioevo il paese era collocato lungo un itinerario importante che dall’ Aquila raggiungeva la costa adriatica passando per l’Hospitale di San Salvatore  dove oggi c’è la Madonna della Tibia, Piano Roseto e Teramo. La leggenda più raccontata dagli anziani del posto narra che un soldato francese, proveniente da famiglia facoltosa, ferito e abbandonato tra i monti, ormai in fin di vita, invocò l’aiuto della Vergine. Maria apparve tra le nuvole bianche è salvò il giovane strappandogli la promessa di costruire successivamente in quel luogo una Chiesa a Lei dedicata. L’importanza della chiesa, che ancora oggi domina l’attuale abitato, poggia sull’ architrave scolpito con un sole radiante, al centro del quale spicca il Cristogramma JHS ( Esso simboleggia il sole in riferimento a Dio, come fonte di vita, come inizio di tutto, come “il Divenire”  ovvero il risultato dell’ Essere sul creato) e su una straordinaria decorazione pittorica all’ interno con una serie di scene votive di ottima fattura, opere di più artisti itineranti di scuola umbro-marchigiana: un’ Annunciazione, una Crocifissione, San Rocco, San Sebastiano, Santa Maria Maddalena, alcuni Santi ed un Cavaliere in parte cancellato che forse rappresenta il committente della Chiesa. Chi era questo Cavaliere, da dove veniva e,soprattutto, come era arrivato tra queste sperdute montagne? I fatti che seguono raccolgono solo, per forza di cose, una piccola parte della storia di questo nobile straniero e se un giorno il tempo e la Provvidenza mi consentiranno un dono, finirò per raccontarvi di più.

SI SECRETUM TIBI SIT, TEGE ILLUD, VEL REVELA

Nemmeno per un secondo Jean de Troyes aveva immaginato che combattere con la corazza della Fede fosse qualcosa di così reale, vicino e insieme pericoloso. Attraversare l’ Italia da Roma fino al Mare Adriatico si era rivelata un’ impresa inaspettatamente rischiosa. Specialmente nel lungo e tortuoso itinerario montano se non si raggiungeva entro la notte un hospitale o le mura di una città si rischiava continuamente la vita per via delle bande di disperati che infestavano i boschi e le campagne in cerca di sopravvivenza. Tutto era come glielo avevano descritto, un ruscello lento e cristallino lambiva le rocce d’ arenaria mentre verso est l’ aspettava l’Hospitale di San Salvatore, un ostello a due piani, costruito dai benedettini per dare tetto e sostegno ai pellegrini di passaggio. Non dovette chiedere, l’ unica strada selciata della zona lo avrebbe condotto, per forza, al luogo cui era diretto. Jean de Troyes non prestò attenzione al piccolo gruppo di case sottostanti da cui provenivano belati di ovini ed un’ acre odore di fumo. Seguito appresso da Pierre, il suo giovanissimo scudiero che trasportava sul mulo, i viveri,  l’ elmo, la cotta, lo schienale e gli stivali di ferro. Il suo cavallo aveva un aspetto pietoso, con gli zoccoli infangati ed il mantello mandido di sudore. Decise, allora, di fermarsi un po’ per fare riposare la cavalcatura, attimi che gli furono fatali, mentre calavano le prime ombre della sera. Pierre accese un fuoco alimentando le fiamme con un bastone usato anche per rivoltare la brace su cui abbrustoliva un pezzo di carne. Mentre la legna crepitava e le faville danzavano intorno un gruppo di scellerati sgusciò fuori dal bosco ed in un’ attimo gli furono addosso. Puntellato dalle ceppaie Jean de Troyes si difese come pote’, accadde tutto in un batter d’occhi, una corrente di freddo glaciale fece scricchiolare le sue ossa paralizzandolo completamente, la vista s’annebbiò, cominciò a tremare e la respirazione divenne irregolare infine una scarica lo scosse fino al midollo. Chiuse gli occhi e aspetto’ la Morte… Si svegliò che era già giorno e sentì nello sgomento uno strano dolore alle gambe, come milioni di formiche che gli conficcavano le zampe affilate nella pelle. Presto l’ inevitabile si manifestò. Brillante, accecante, bianca come la Luna una luce pulsante lo accecò, come un Sole che non bruciava la vista. Poi arrivò il tuono, fu un colpo secco, sonoro, selvaggio. Con le pupille dilatate e gli occhi rossi, senza poter battere le ciglia Jean vide la Madre Celeste tra le nuvole… Il resto lo dice la leggenda! 

” Vergine Madre, figlia del tuo figlio,                                   umile e alta più che creatura,                                             termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’ umana natura                                          nobilitasti si, che ‘l suo fattore                                          non disdegnò di farsi sua fattura

Nel ventre tuo si raccese l’ amore,                                    per lo cui caldo ne l’ etterna pace                                  così è germinato questo fiore”

UBI TU, IBI EGO

    Vittorio Camacci