Un popolo non può subire per sempre la prepotenza dei potenti mentre la sua anima si arricchisce ogni giorno delle luci e delle ombre della natura. I nostri avi vedevano il calcareo Vettore elevarsi al cielo senza confine, osservavano il veloce mormorio delle acque del Tronto che scorrevano senza riposo per aprirsi un varco tra i lastroni d’ arenaria, si immergevano nel folto dei boschi eterni scossi dallo stormire delle fronde e dagli ululati dei lupi. Il loro orizzonte temporale variava tra i monti, le valli, le foreste come il loro temperamento: talvolta potevano essere miti come i santi anacoreti che abitavano la Valle del Chiarino o i fraticelli di Borgo; a volte, quando erano messi alle strette dai dominanti, essi insorgevano contro le violenze ed i soprusi diventando guerreschi e feroci come selvaggi. Amavano la libertà, in ossequio della quale non esitavano ad abbandonare la casa, gli agi, la famiglia per vivere liberi tra le montagne. Allora prendevano il nome di briganti e ne commettevano gli atti elevandosi con forti schiere e forti gesta in un’epopea gloriosa di resistenza e resilienza continua. Storie movimentate di generosità e di delitti, epici atti e terribili tragedie come quella di Marco Sciarra nella seconda metà del XVI secolo che potrebbe paragonarsi a quella di un capitano di ventura. Aveva imparato il mestiere del brigante nella banda di Sabatuccio Ursini di Amatrice e volle emulare le gesta del Barone Giulio Cesare Rosales di Colonnella e del suo braccio destro Forte di Maulo. Con le sue innumerevoli alleanze arrivò ad avere un esercito di cinquemila uomini, diventando praticamente imprendibile, aveva anche dei sosia per cui veniva avvistato lo stesso giorno in luoghi diversi, operò in Abruzzo, nelle Marche, nel Lazio, in Umbria e nelle Puglie gettando Roma nel più vivo sgomento quando giunse alle sue porte. Il vicerè di Napoli, per disfarsene gli mandò incontro, al comando del colonnello Spinelli, quattromila uomini. Marco Sciarra non si scompose e riuscì a vincere diventando così il “ Re della Montagna” eccedendo nelle azioni e nelle reazioni ma rispettando sempre la religione, i deboli e le donne. Quando il popolo lo abbandonò per codardia e vigliaccheria, ebbe un momento di smarrimento e con la sua banda andò a mettersi al servizio della Repubblica Veneta. Si fece onore tra i fiordi della Croazia e quando per oscure ragioni fu costretto a tornare nelle Marche fu ucciso a tradimento, dai suoi più fidi compari Battistello da Monte Guidone e Brandimarte di Porchia sul Colle della Croce, territorio appartenente alla Rocca di Montemoro, tra Force e Venarotta in provincia di Ascoli Piceno. Un secolo più tardi, alla morte di Filippo IV di Spagna, avvenuta il 18 settembre 1665, il trono passò al figlio Carlo II, di appena quattro anni, sotto la tutela della madre Maria Anna D’Austria, inetta ed inesperta nelle questioni di stato per cui nel vicereame di Napoli nacquero condizioni confuse e pericolose che dettero vita a scontenti riattivando le inoperose bande ribelli che non misero più limiti alle loro azioni. Correvano da padroni il territorio della Laga, indifferentemente dal Regno delle Due Sicilie a quello della Chiesa senza rispettarne i confini, portavano via i prodotti e gli utensili, rubavano nei mercati e nelle casse dei pubblici tesorieri il denaro. Le nuove bande erano comandate da un giovane dall’aspetto civile, governato da uno squisito senso di cavalleria Sante Lucidi detto anche Santuccio di Froscia o Sciarretta, pronipote di Marco Sciarra,nato a Cesa casale di Rocca Santa Maria ma possidente del castello di Colle Arenario, tra Boceto e Bellante, lasciatogli in eredità dal prozio. Lo chiamavano Santuccio di Froscia perché aveva spesso attacchi d’ira e quando questo avveniva gli si gonfiavano notevolmente le narici che in dialetto locale si chiamano “le froscia”. Si era imparentato con la potente famiglia di Don Germano Rozzi di Campli sposando la nipote Marianna dalla quale non ebbe mai figli. Lo distinguevano dagli altri capibanda un coraggio ed un ardimento che rasentavano la temerarietà ed un’intelligenza pronta e vivace, oltre che un’abilità strategica e tattica eccezionale nella guida dei suoi uomini. Santuccio agiva con il consenso e la supervisione del vecchio capomassa ultracenetenario Giuseppe Colranieri, ex luogotenentedi Giulio Pezzola ormai asserragliato per via dell’età nella sua robusta e inespugnabile rocca fortificata di Colle Raniero situata sulle montagne sopra Montorio al Vomano ma era ben coadiuvato nell’ azione brigantesca dal figlio di questi Giovanni Berardino ed il nipote Giambattista detto Titta, e da altri noti capocomitiva come Antonio Di Silvio noto come Antonio delle Piagge detto Barbarossa, Savino Savini, Alessandro Vitelli, suo figlio Giovanni Carlo ed il nipote Tommaso Vitelli detto Tommasuolo, Medoro Narducci di Talvacchia, Salvatore Bianchini della Forcella di Valle Castellana, Giuseppe Serafini di Bellante detto Spagnoletto, Carlo Pompetti, Sinibaldo Sfamurri di Valle San Giovanni noto come Sfamurro ed i Mancecchi. Gli mossero incontro i soldati di Spagna al comando del Maestro di Campo Michele Almeida ma furono sconfitti a Valle Castellana. Allora il vicerè di Napoli Gaspar Mendez de Haro y Guzmàn Marchese di El Carpio assoldò briganti calabresi indultati e artiglieri napoletani per stanare dai boschi del Martese le famigerate bande brigantesche, anche perché aveva capito che il banditismo non era stato sconfitto a causa di magistrati, Presidi ed Uditori corrotti e decise così di usare forze militari imponenti, quante in Abruzzo non se n’erano mai viste. Nel 1684, dopo che il suo castello di Colle Arenario era stato abbattuto dall’ artiglieria spagnola, Sciarretta ormai sconfitto, accerchiato e rimasto solo con Titta Colranieri, suo fratello Giovanni e suo cognato Domenicantonio Mancecchi passò il confine papalino sul Tronto, rifugiandosi prima ad Offida poi ad Ancona da dove s’ imbarcò per la Repubblica Veneta dove servì come capitano dei mercenari contro i mussulmani nella Morea e poi nelle battaglie contro i turchi di Spalato, Zara e infine si fece onore a Sebenico nella battaglia di Citelut dove fu insignito di una onorificenza al valore insieme ai suoi uomini. A differenza del prozio, memore della sua brutta fine, non tornò mai nelle terre della Laga e si rifece una vita in Dalmazia. Santuccio probabilmente morì verso la fine del Seicento, non superando i sessant’anni di vita in un luogo ed in circostanze che non si conoscono *( Qualcuno sostiene che sia tornato nella penisola in incognito e si sia stabilito proprio nel territorio pontificio, probabilmente a casa di un suo affiliato a Spelonga di Arquata del Tronto. Da qui attraversava a cavallo la Laga passando dalla Macera della Morte per poi scendere la Cresta di San Paolo, Valle Castellana, Leofara, Macchia da Sole, le Gole del Salinello, Campovalano ed andava a trovare la moglie in incognito. La bandiera turca conservata ancora del paese di mostra questo fatto perché in base a recenti studi essa non è cinquecentesca ma di forgia e forme risalenti alla seconda metà del XVII secolo. Quindi si presuppone sia stata portata nel paese proprio da Santuccio dalla Dalmazia sul finire del secolo). Sua moglie Marianna lo aspettò inutilmente, non si volle risposare e andava dicendo in giro: “ mi ha scritto il mio Santuccio… Me l’ha mandato il mio Santuccio… Quando riviene il mio Santuccio”. Quasi tutti non le credevano e pensavano che lei lo dicesse per non mostrare agli altri quanto le pesasse la sua mancanza. Chi cercò di fare il conto degli omicidi da lui commessi o in suo nome, arrivò all’ incredibile cifra di 1.369 a cui si doveva aggiungere il numero dei caduti in combattimento, dei giustiziati e dei condannati all’ ergastolo, che a quei tempi quasi sicuro morivano in galera. Nel Vicereame di Napoli rimase per tempo ancora immemore la sua fama si diceva di lui : “ Santuccio, famoso bandito in Abruzzo, scacciato s’immortala nel servizio delle Sirinissime Armi Viniziane, come ultimamente nella presa di Castelnuovo”.E si cantava di lui:
“ Lo terzo è Arcasto, che te fa tremmare,
co ll’uocchie de Santuccio spaventose.
Sto gran manisco de lengua spontuto,
caudo de rine, e fuoco de cerviello
de li nemicce suoie fece macello.
N’appe l’esilio, e po’ da fuoruscito
Fece assaie peo de Sciarra e de Martiello:
né potenno a la fine cchiù durare,
fece comm’a Santuccio pe’ scappare”.
Vittorio Camacci