Sono luoghi in cui non sembra vivere nessuno. Strade solitarie in cui muovono i passi sparuti camminatori, sentieri centenari in cui i silenzi sono rotti dal gracidare delle “ciaule”, antichi muretti a secco su cui camminano gatti randagi e lucertole più di quanto vi si appoggiano mani e schiene umane. Sebbene ci possa sembrare uno scenario desolato queste immagini raccontano, in verità, una storia di resilienza: quella di seicento persone che continuano ancora oggi ad abitare i borghi di Arquata del Tronto, che stagione dopo stagione perdono altri “pezzi”, si vuotano di personaggi vecchi e nuovi, perdendo anche servizi ed attività fondamentali. E’ un arcipelago di rovine, in gran parte sconosciuto, è una realtà ai margini illuminata da una tragedia diventata mediatica per poco tempo che ci ha inculcato paure e strategie di adattamento inverosimili, per farci ragionare eternamente con lucido cinismo attorno alle motivazioni di chi è rimasto e chi se n’è andato. E’ una situazione nitida, una fotografia chiara della situazione attuale in cui si delineano gli interventi necessari per evitare che, tra sfruttamento turistico e incuria dello Stato, la nostra identità collettiva finisca cancellata per sempre. Questi paesi ci vogliono, non solo per il gusto di andarsene via, ma soprattutto per la bellezza di ritornarvi. Per questo contiamo i giorni della “restanza” all’ interno di comunità resilienti che si chiamano villaggi SAE, seduti su divani incomodi, in cui il culo affonda, a guardare con i nostri vecchi la messa in tv, a sistemare le aiuole ed a farci curare a giorni alterni da medici fin troppo pazienti che fanno quel poco che possono. Vicino a noi quel che resta dei paesi, abbandonati, vuoti, brevemente trasformati in set fotografici di turismo macabro. Per qualche anno tutti sono venuti qui, era entusiasmante, sembrava di vedere tanti archeologi con cappellino e macchina fotografica venire a toccare con mano, le rovine viste in tv, come per accertarsi che tutto fosse vero. L’importante era che si fermassero a mangiare nei ristoranti provvisori, a comprare nei negozi provvisori, a prendere il caffè e le bibite nei bar provvisori e soprattutto che tenessero i riflettori accesi. Poi, dopo la pandemia, di nuovo tutti al mare ed ai viaggi esotici. Tutto questo ci ha mostrato quello che all’ inizio non avevamo capito, cosa sono le montagne appenniniche, terre suggestive e difficili, dove effettivamente ci sono giovani che decidono di restare pagando un prezzo altissimo che consiste nel negoziare tutti i giorni assistenza sanitaria, ambulanza che arrivi in meno di un’ ora, strade praticabili anche d’ inverno, il diritto al trasporto pubblico, a una vita culturale, a un liceo per i figli che non sia a quaranta chilometri di distanza. E’ chiaro che alcuni di questi paesi rinasceranno solo materialmente, moriranno di vita e non ci si può far niente, i giovani che vanno via non possono essere colpevolizzati. Alcuni diverranno alberghi diffusi, che in fondo sono una forma di feticismo della povertà, perché vendono a centinaia di euro la stessa esperienza che tanti anni fa era miseria di vivere. Altri saranno community manager, piene di attivatori e procacciatori di bandi, faticoso ma remunerativo lavoro che necessita di quello che la vita di oggi non ha per costituzione: il tempo. Saranno loro, questo manipolo di filantropi illuminati, per pietà o cattiva coscienza, a creare professioni effimere dando vita ad un turismo distratto che già non esiste più? Sicuramente no! I borghi che si rivitalizzeranno ci riusciranno per la forza interna che sapranno trovare. Una cosa è certa: queste nostre tredici frazioni non hanno più discendenti perché i pochi giovani che abbiamo, fortunatamente sono già altro, quando sentiamo dire che i paesi stanno vivendo una ricostruzione, in realtà stiamo assistendo alla fine delle tradizioni. Una storia che mi è difficile raccontarvi, imprevedibile e complessa, con un futuro tutto da scoprire. Dopo il terremoto ci siamo innamorati di nuovo del passato e poi ci siamo subito stancati, come sempre succede quando non capiamo cosa di preciso stavamo amando. Oggi vado a zonzo per questi paesi diroccati, abitandoli con il mio spirito. La vita di città non mi interessa, il progresso e la modernità sono corrotti, l’uomo è allo stremo. Sono un illuso che vive di poesia, la mia scrittura è insipida, volutamente banale, in un mondo che si è fatto velocissimo essa è semplice, breve, diretta e limpida perché oggi nessuno a tempo da perdere con la lettura. La mia è una visione del mondo semplicista e consolatoria che non mette acqua nel vino e prova a fare miracoli. Anche perché non mi è consentita alcuna incertezza, alcun ritorno ad una partecipata gioia di vivere, alcuna adesione a “combriccole” di amici degli amici. Il mio dilettantismo formale e la mia approssimazione estetica, in cui il bene e sempre separato dal male, insieme ad un infantilismo etico e politico sono la mia salvezza. Tra qualche anno non sarò mai esistito, a qualcuno farà comodo perché non ci sarà più posto per i sentimenti, cari miei lettori non avremo più tempo di confortarci, confrontarci e tantomeno di sfiorarci.
“Noi che proveniamo dall’universo
Siamo pieni di cose,
Confutabilmente edotti
Abbiamo smarrito ogni meraviglia.
Un giorno torneremo liberi, leggeri
Tra le braccia vaporose delle nuvole
E torneremo sulla terra come fiocchi di neve”
Vittorio Camacci
mi ricorda il paesaggio di quando era bambina ed il linguaggio…
le ciauole,
i sentieri…
i muretti e i ruderi delle case che non ci sono più..
oltre ai precedenti edifici diruti già prima del sisma. grazie delle tue espressioni/impressioni riportate nel racconto