Il mulino e il forno di Carlo Cappelli a Borgo di Arquata
Questo racconto nasce da una conversazione con Stefano Cappelli che, casualmente, mi ha narrato la storia della sua famiglia e di suo nonno Carlo.
Ascoltando ciò che diceva ho immediatamente avuto il desiderio ed anche la necessità di scrivere e fissare le informazioni con il fine di conservare il ricordo di uno spaccato storico della laboriosa vita economica del tempo passato, legata all’economia rurale e alla tradizionale macinazione dei cerali che si coltivavano nel territorio comunale di Arquata del Tronto.
Il nonno di Stefano si chiamava Carlo Cappelli, classe 1900, era originario di Collefalciano di Acquasanta dove viveva e svolgeva la sua attività di mugnaio insieme ai suoi famigliari, proprietari di alcuni mulini.
Il suo trasferimento tra le nostre montagne è avvenuto negli anni 1927-28 per prestare la sua opera presso il laboratorio a macine di Giovanni Bucciarelli a Borgo di Arquata.
Ha vissuto per qualche anno da solo e, dopo aver trovato una buona sistemazione, nel 1932 ha ricongiunto a sé la moglie Domenica e i figli: Gigi, Apollonia e Giovanni. Negli anni successivi, dal suo matrimonio sono nati anche: Filippo, Gilda, Adriana, Domenico e Quinto. Nel contempo aveva acquistato la proprietà del mulino Bucciarelli, il piccolo stabile che si trovava dove ora vi è casa Cappelli, lungo la Strada Provinciale 129 ex Salaria, tra Arquata ed il bivio per Piedilama-Pretare-Forca di Presta.
Non ho avuto modo di conoscere Carlo, ma da ciò che ho ascoltato credo di poterlo definire come un uomo laborioso, lungimirante, amante del lavoro e animato da uno spiccato spirito imprenditoriale.
La tradizione lo indica come l’ispiratore della realizzazione dell’Antica Fornace di Pretare, ossia dell’impianto industriale idoneo alla trasformazione della roccia calcarea in calce. Egli stesso avrebbe voluto dare consistenza a questa intuizione, maturata dall’osservazione del territorio, ricco di depositi rocciosi, ma il lavoro del mulino impegnava ampiamente la sua vita e così ha dato il suggerimento a due suoi conoscenti: A. Enea e A. Basilici, gli imprenditori dell’ascolano che nel 1928, dopo aver ottenuto in concessione ventennale il suolo dalla Comunanza Agraria di Pretare, hanno concretizzato il progetto.
Carlo ha continuato a lavorare e a curare il suo laboratorio produttivo, citato nel Secondo Volume dell’Annuario Generale d’Italia pubblicato nell’anno 1933 da cui risulta che, in quell’epoca, nel comprensorio del comune di Arquata erano rimasti attivi solo 7 mulini ad acqua, appartenenti a:
– Giambella Domenico
– Ciampanella Sante
– Valeri Lorenzo
– Comunanza Agraria di Capodacqua
– Bucciarelli Giovanni (acquistato da Carlo Cappelli)
– Calvelli
– Norcini Pala Pietro
Il macinatoio di Cappelli è l’unico tra quelli elencati dall’Annuario che, nel tempo, ha avuto un’evoluzione progettuale con una conseguente riconversione dell’attività produttiva e ha lasciato negli anni la salda impronta che proviene dalla realtà di epoca preindustriale.
Si trattava di un impianto a palamenti, come tutti gli altri presenti nell’arquatano. Era movimentato dalle acque del Fosso di Camartina, un piccolo torrente che si snoda nel Parco nazionale dei Monti Sibillini, nell’Alta Valle del Tronto e ricade nel bacino idrografico dell’omonimo fiume. I meccanismi di funzionamento dell’impianto molitorio erano sovrapponibili a quelli che Marco Vitruvio Pollione, architetto romano, ha descritto nel X Liber del De Architectura, il testo che ha dedicato alla Meccanica e alla spiegazione del funzionamento delle macchine idrauliche azionate dalla forza motrice generata da una ruota movimentata dalla spinta di acqua corrente, ossia dall’energia idraulica creata dal flusso di un corso d’acqua convogliato fino alla ruota del mulino attraverso opere di canalizzazione.
In tempi anteriori all’invenzione e alla diffusione dei mulini, per ridurre in farina i cereali si usavano i mortai e pestelli, rulli di pietra, alcuni utensili e il sistema della macina girevole a cui l’uomo, con la sua forza, imprimeva il movimento rotatorio. L’uso della potenza generata dall’acqua ha storicamente rappresentato una svolta fondamentale per ottenere svariate tipologie di triturati.
L’etimologia stessa della parola mulino trova la sua derivazione dal lemma molinum, in uso nel latino tardo, che prende la radice dal verbo molĕre che vuol dire appunto macinare. Il mestiere dei mulinai o molinari ha da sempre rappresentato l’anello di congiunzione tra la produzione degli agricoltori e la lavorazione delle messi, in particolare degli alimenti frantumati destinati alla mensa degli uomini e al nutrimento degli animali. Come nei secoli altomedievali, avviare l’attività molitoria richiedeva la disponibilità e soprattutto l’impiego di cospicue quantità di denaro necessarie per affrontare i costi di costruzione o di acquisto del laboratorio e di manutenzione delle apparecchiature, spese che risultavano sempre piuttosto elevate. Soprattutto l’epoca medioevale ha delineato e descritto con particolare precisione la professione del mugnaio definendolo come un’importante figura di riferimento per la gestione e la conduzione di questi opifici. Questi doveva avere la capacità di dirigere, utilizzare e riparare le attrezzature, gestire in modo efficace e vantaggioso lo sfruttamento dei torrenti o dei fiumi che conferivano l’immancabile energia idraulica.
In alcune città, a partire dal XII secolo, sono state costituite anche le Corporazioni dei mugnai per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti a questa categoria. Al contempo una serie di norme, codificate negli antichi statuti, raccoglieva in modo organico leggi e consuetudini che disciplinavano il loro operato elencando gli obblighi e i divieti a cui erano assoggettati.
La storia del mulino Cappelli ha avuto inizio all’interno di un’antica struttura che aveva la fisionomia architettonica e la consistenza di uno stabile in pietra elevato da una pianta rettangolare. La copertura di legno e travature era completata esternamente da una coltre di coppi rossi. Il vano interno presentava, nella zona centrale, una colonna di mattoncini e lungo i fianchi piccole nicchie.
L’ambiente era rischiarato ed arieggiato dall’apertura di due finestre quadrate, poste nella parte più alta delle pareti, ed una portafinestra ad arco che affacciava su un piccolo ballatoio come fosse un balconcino. L’edificio aveva la particolarità di essere stato costruito con robusti muri a sacco, un tipo di tecnica edilizia che, in tempi passati, era solitamente riservata alla costruzione di opere difensive o impiegata per gli edifici storici.
Il fabbricato era addossato alla terra tra l’alveo del corso d’acqua del Fosso di Camartina e la vecchia Salaria. La fiancata accostata al terrapieno mostrava varie arcate, le tre pareti perimetrali libere erano formate da due muri paralleli realizzati in pietra e distanziati fra loro. L’interno dell’intercapedine di ogni muro era riempita con terra e pietrame.
Accoglieva due macine circolari e monolitiche, di circa 130-150 cm di diametro, rispettivamente destinate alla triturazione dei cereali per l’alimentazione umana e per quella animale. La mola sottostante era fissa e detta dormiente, l’altra ruotante era definita attiva e girava intorno sul suo asse centrale per impulso dell’energia idraulica. I cereali erano introdotti nella tramoggia posizionata al centro della mola superiore e cadevano fra i due dischi di pietra distanziati e sovrapposti. Per effetto della pressione e dello sfregamento si sminuzzavano in finissimi granelli fino a divenire la farina che si scaricava per forza centrifuga lungo i bordi delle macine.
Gli agricoltori portavano a dorso di mulo i sacchi carichi del loro raccolto di grano, orzo, granturco e li consegnavano a Carlo per la trasformazione. Per questa prestazione era possibile pagare un corrispettivo in denaro oppure lasciare una percentuale di peso del macinato come rimborso del lavoro eseguito.
Dopo la captazione dell’acqua del torrente Camartina, Cappelli ha trasformato il suo mulino in elettrico e nel 1958 in forno per panificazione, funzionante sia a legna e sia a nafta. In seguito, nel 1971, è stato alimentato con carburante diesel assumendo le caratteristiche di vapoforno ad aria calda e vapore. Nel 1990 è stato convertito a metano ed attivo fino ai nostri giorni, ma tristemente distrutto dagli eventi sismici accaduti nella notte del 24 agosto 2016.
Nei miei ricordi rimane la solida traccia dell’intenso profumo della panificazione che percepivo ogni volta che entravo nella bottega del forno con papà per acquistare: pane, pezzi di pizza, crostate (indimenticabili!), biscotti, ciambelloni, la crescia al formaggio tipica del periodo pasquale e il pan di spagna che mia nonna Marietta trasformava nella torta del mio compleanno.
Ancora oggi dico grazie alla signora Filomena, moglie di Giovanni e madre di Stefano e Corrado, perché ci accoglieva sempre con un bel sorriso e la sua cortese cordialità.
La mia memoria corre anche ai giorni della scuola quando, durante la pausa della ricreazione insieme a me, intere generazioni di piccoli alunni hanno mangiato per merenda la pizza rossa o bianca di Cappelli ed infine ripenso ai biscotti lievitati con l’ammoniaca, tagliati a rettangolo, leggeri, friabili e un po’ graffiati per fissare meglio la spolverata di zucchero. Era uso e consuetudine offrirli durante i ricevimenti degli sposalizi. Sono pensieri che ripercorro con profonda nostalgia e che mi restituiscono parte dei profumi e dei sapori della mia vita vissuta tra le montagne dove sono nata.
Articolo a firma Sandra Crisciotti
Le informazioni sul forno provengono da Stefano Cappelli, le notizie storiche da pagine di wikipedia e dal citato Annuario Generale d’Italia pubblicato nell’anno 1933.