Un giorno ho portato in escursione sui nostri sentieri una scolaresca. La giornata di fine marzo era splendida e di colpo ci sorvolarono un nugolo di uccellini che cinguettando chiassosamente si rincorrevano sopra i rami, appena gemmati, degli alberi. Allora dissi ai bambini che a causa della primavera, quegli uccelli lottavano per trovarsi una fidanzata. Di colpo mi bloccai, trasalii, forse ero andato troppo oltre e mi aspettai a quel punto una domanda, magari scabrosa, sull’argomento, invece, una bambina, dopo aver alzato timidamente la mano, mi chiese candidamente: “scusi, ma come si fa a sapere quando arriva la primavera”? Questa domanda poteva sembrare ingenua, invece non lo era per niente, perché un bambino che vive in città oggi non conosce i segnali inequivocabili che indicano l’imminente cambio di stagione. Segni, invece, che chi vive in montagna o in campagna conosce benissimo. L’agricoltura era un’attività sacra che offriva la possibilità di interagire stagione dopo stagione con il mistero della rigenerazione vegetale della natura. Essere perennemente in contatto con Madre Terra e operare in simbiosi con l’energia di cui essa è portatrice significava creare un legame permanente con il sacro che è nei semi, nelle zolle, nei frutti, nel cielo. L’agricoltore era dunque, in questo contesto, un sacerdote della Natura, che viveva in luoghi densi di sacralità, i suoi gesti s’ incastonavano all’ interno di un ciclo cosmico, che prevedeva il tempo della semina, dell’attesa e del raccolto. I miei ricordi dell’infanzia erano fortemente influenzati dalle stagioni, soprattutto in campo alimentare, dove in inverno la dieta giornaliera era assai monotona composta quasi esclusivamente da prodotti contenenti farina, uova, il formaggio, gli insaccati e qualche verdura, ovviamente di stagione, come cavoli o broccoli. Uno dei primi segnali che annunciavano la primavera era il portare o spargere il letame nei campi, poco prima della loro aratura e semina, perché il terreno indurito dal gelo invernale doveva essere preparato dissodandolo ed appunto arandolo e concimandolo per la semina delle varie colture. Il letame era caricato a mano con il forcone sui carrelli e veniva poi scaricato sul terreno per essere sparso sempre a mano su di esso. Anche il portare la “vacca alla monta” era un inequivocabile segnale di primavera. Al tempo non esisteva l’inseminazione artificiale e tutto avveniva nella locale stazione di monta taurina, situata sotto la casa di Mimina, vicino al palazzo dei Fabriziani, gestita da quello che era anche il macellaio : Salvatore detto anche ” Barmajore” o “Lù Zuzzitte”. Noi bambini guardavamo da lontano, sotte lì Calevennette, con curiosità l’evento, imbarazzati capivamo il “perchè”, ma non il “come” questa cosa avvenisse. Comunque le prime messaggere della bella stagione erano in assoluto le rondini, arrivavano a frotte e si riappropriavano dei vecchi nidi che restauravano con beccate di fango misto a fuscelli di paglia. I loro voli pindarici ed acrobatici allietavano il cielo azzurro e terso di marzo. Anche i pollai erano in fermento, molte galline cominciavano a “chiocciare”, ossia a covare le uova, nelle conigliere le nascite avvenivano a ritmo serrato e le greggi tornavano ai pascoli seguite dai piccoli agnellini. Anche l’interno delle case prendeva nuova vita perché le donne si impegnavano assiduamente nelle pulizie pasquali, un rito di purificazione che intendeva togliere lo sporco accumulatosi in ogni angolo delle abitazioni nel corso dell’inverno. S’imbiancavano, per l’occasione, con la calce i vari ambienti della casa, per farla apparire luminosa e rinnovata, lucidando anche per l’occasione le annerite pentole di rame che abbellivano le pareti della cucina. Come tocco di sensibilità femminile non mancavano mai di mettere rametti appena fioriti in brocche sopra le credenze ed i tavoli. La natura si svegliava improvvisamente cresceva l’erba, sugli alberi spuntavano le fronde e tra lo scrosciare dei rigogliosi fossi fiorivano le primule, le viole, i ciclamini e tanti altri fiori selvatici, tutto avveniva come in un film visto più volte e con il primo sole caldo noi bimbi ci spargevamo nelle vie del paese per i giochi all’ aperto. Alla fine sfiniti tornavamo a casa tra le forti braccia di mamme-massaie che con tenerezza ci accarezzavano i visi accaldati. Dopo cena, esausti, ci abbandonavamo ad un sonno ristoratore, nelle camerette di casette silenziose che riposavano sotto cieli stellati, cullati dai versi degli animali notturni e dalla melodia di innumerevoli grilli.
Vittorio Camacci