La ricostruzione è cominciata, molto lentamente, muove i primi passi. Orme sulla terra appena scavata di nuove fondamenta che vanno verso una direzione ben definita, a volte illogica, che riflette in uno specchio di verità, quella che ormai tutti sanno: ci sono percorsi privilegiati riservati a pochi eletti ed un’enorme fila di terremotati bisognosi che non trova una strada, confuso ed illuso da tante promesse ed infiniti inganni. A memoria di tutto ciò restano ancora le macerie del capoluogo e di tante frazioni, resta la solitudine di persone di buona volontà. Tutto il resto è desolazione sociale. Guardando i panni stesi davanti le casette dei villaggi provvisori capisco delle cose: c’ è chi deve arrangiarsi con improvvisati stendini, come miseri appigli e chi già gode della visione di gru e ponteggi piazzati da chi ha cominciato a ricostruirgli la casa. Da questo si può intravedere il nostro futuro: per qualcuno è stata accesa la luce, è stata data un’opportunità mentre altri sono costretti ad andarsene, sfiancati da una burocrazia e da interessi ostili invalicabili. Per queste persone i tramonti si fanno tristi, cupi e la solitudine entra come il freddo dentro le ossa. Capiscono di essere isolate, emarginate, escluse da un percorso di speranza. Sono come le abitazioni spaccate a metà dal sisma con le pareti inclinate sul vuoto, sono come le macerie che restano, sono la seconda scelta, quelli che non servono. Per essi tutto rimane come quella notte di fine agosto che tolse tutto, anche la piccola speranza di vita in questo paradiso naturale. Io sono dalla parte di queste persone, quelle sole, quelle ferite, non le abbandono e con spirito francescano li considero miei fratelli. Per loro sono tornato alla natura, alla montagna, sono tornato alla terra che mi ha partorito, quella arquatana, attraverso il ventre di mia madre che è accumolese, in una stanzetta del vecchio ospedale di Amatrice , in una notte di dopo-festa dal cielo stellato in cui si sentiva solo il mio vagito ed il sospiro del vento della Laga. Oggi sono rinato a nuova vita, sono figlio di questo terremoto, arditamente coltivo la terra e curo il bosco. La mia vita è dura ed il lungo inverno di montagna con la neve che copre ogni cosa spesso mi mette in difficoltà. Stare qui è dispendioso, non ci vado pari e ci rimetto. Ma qui su queste montagne, dove i miei avi hanno combattuto con la fame e la fatica, respiro a pieni polmoni, con il Vettore che mi guarda immobile e silenzioso. Mi accompagna la malinconia di non essere capito delle mie scelte, per alcuni incomprensibili e folli. Ostinato continuo a vivere in armonia con il profumo di ginepro e delle bacche di rosa canina, una vita assurda, senza guadagno, in un posto romantico e troppo selvaggio, abbandonato anche dalle anime dei Santi eremiti che qui vissero tanti anni fa. Purtroppo sono solo, solo con i miei sogni ed i miei racconti, le mie fantasie ed i miei amori stretti nel cuore. Un cuore piccolo ed infinito che batte e sussulta per ogni meraviglia di questa terra, per ogni tocco di campana delle nostre provvisorie chiese. Mi sento come quel lupo zoppo che incontro ogni tanto sul sentiero per la Madonna dei Santi in mezzo ai ginepri di Colle Capraro. Mi guarda con occhi grandi e malinconici, appena mi vede scappa zoppicando sul soffice manto erboso tra chiazze di neve. La zampa anteriore sinistra è piegata, non tocca mai terra. Il lupo arranca sempre ma mi indica la strada, capisco che ha bisogno di aiuto, da invalidato si sente solo ma continua a sopravvivere. La sua malinconia di stella cadente, di bestia ferita mi ha insegnato che la sofferenza può essere amore, l’importante è avere un obiettivo di vita, un guizzo negli occhi. Lui mi ha dato la forza di passare l’inverno ed io l’ho nutrito, l’ho accudito e spesso gli faccio compagnia parlandogli con dolci sussurri. Ho compreso che questo forte animale sarà presto condannato ad un triste destino, l’implacabile legge della natura. Un lupo zoppo ed un uomo incompreso, un binomio perfetto che da speranza a questa terra martoriata, che ci fa continuare ad amare il prossimo come fosse noi stesso. Il folle scrittore ed il lupo ferito tra i primi fiori e le ultime nevi, tra le poesie ed il vento freddo, tra una scelta di vita difficile e contraria e le comodità illusorie costruite con l’ipocrisia e con l’inganno. L’amore è dentro di noi e per esprimerlo può bastare la solidarietà ad una bestia ferita, un gesto semplice per sentirci meno soli ed in armonia con il Creato.
Vittorio Camacci