Sono passati quasi duecento anni e nessuno ormai ne parla più, è
rimasta solo una misera tomba in un piccolo cimitero sconsacrato, senza
più la croce e senza un nome. E’ la tomba di un ignoto, una tomba che
racconta la sua storia, la storia di un povero diavolo vissuto nei primi
anni dell’ ottocento. La sua vita valeva meno di una gerla di tabacco, e
lui con il coraggio dei disperati, dei morti di fame, aveva osato
sfidare quell’ ” altolà o sparo “, in una notte senza luna, su per i
sentieri del ” Chiarino “, che lui conosceva più delle sue tasche. Una
vita gettata via per pochi baiocchi o ducati, un eroe dei tempi di fame,
senza meriti né medaglie. Sicuramente era stato sepolto in fretta, con
il vestito di tutti i giorni, che aveva indosso anche quella notte,
quando i gendarmi lo acchiapparono: troppo povero per avere di più di
una sepoltura sommaria. Aveva camminato sempre di notte, in silenzio,
nei boschi e sulle nude rocce, in mezzo alla neve e lungo i pericolosi
canaloni della Laga. Le guardie confinarie erano molto dure e spietate
anche se lui non era mai armato. Voleva solo tornare a casa, il più in
fretta possibile, per potersi riposare in un letto caldo, dopo i lunghi
percorsi all’ addiaccio, che spesso duravano alcuni giorni. La realtà
che viveva a quei tempi aveva mille sfaccettature, dove contrabbandieri,
popolani, guardie confinarie, erano, a seconda delle circostanze,
amici, nemici, complici. Sovente si ritrovavano a bere insieme anche in
qualche osteria, malamente illuminata, avvolta da una persistente puzza
di legna bruciata, stalla, pessimo cibo e vino mal digerito. Si
vociferava che i preti , fossero complici dei contrabbandieri, ed anche i
sotterranei degli altari e le sacrestie fossero depositi di merci
preziose. Oggi nei Monti della Laga , a ridosso del fiume Tronto che
faceva da confine, non è più vivo il ricordo di un passato di
contrabbando e brigantaggio, in un tempo in cui la miseria era pungente i
nostri monti sono stati teatro di storie leggendarie, inseguimenti a
perdifiato e umane vicende. Qui lungo i sentieri e nei boschi, si
muovevano nell’ ombre della notte i contrabbandieri, uomini poverissimi
costretti a praticare l’ illegalità per sopravvivere. A volte
trasportavano carichi pesanti sulle spalle, in solitario, per non farsi
catturare in gruppo e disperdere i carichi. Attraversavano il confine
tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio, eludendo i regimi fiscali e
sfidando la malasorte. I loro antagonisti erano le guardie confinarie,
sempre in servizio giorno e notte, pronti a rincorrerli tra sentieri,
boschi e vallate. Spesso avevano in dotazione dei cani, rarissimamente
avvisavano i malcapitati con un ” fermete ù spare ” ! Sparavano e basta,
possibilmente per uccidere, non davano possibilità di fuga o
redenzione, non amavano i tafferugli o le diatribe, non avevano lati
umani, non accettavano le giustificazioni e gli scambi di opinione.
Capitò così che in questo scampolo di mondo, in questo starnuto di Dio,
in questa terra montagnosa di vite stentate, si consumasse un piccolo
dramma, specchio della misera esistenza umana. Nelle notti di ” sole
zingaro “, così chiamavano la luna compagna dei contrabbandieri, si
muovevano ombre sul sentiero della ” Cappelletta “, chi non ha mezzi per
fare il carbonaio, il pastore, il mercante, il carrettiere, non ha
scelta fa il contrabbando. Si carica sulla schiena venti o trenta chili
di tabacco, vino o distillato e fa marce estenuanti tra i ripidi
sentieri della Laga. A volte scambia le merci con cacao e caffè verde,
con il sale, soprattutto rischia la pelle: più dei temporali, della neve
alla cintola, dei crepacci. Esso odia le pallottole dei doganieri, li
chiama ” caini ” , li odia di un odio implacabile, perché essi fanno
sconti ai delinquenti, ai briganti, ma a loro no. Quelli che vengono
presi vivi, magari per qualche spiata, vengono arrestati e mandati al
Forte Malatesta ad Ascoli Piceno o peggio ancora se vengono presi dalle
guardie del Regno li portano al carcere di Sant’ Agostino a Teramo, da
cui pochi ritornano. Era l’ inverno del 1834, la famiglia di Bartolomeo
viveva nel tepore della sua baita a Poggio D’ Api. Bartolomeo riparava
il manico di una zappa, rigirandosi nella bocca il manico di una pipa
mentre Concetta sua moglie , sdentata e scarnita, sfilacciava stanca la
lana sotto l’ esile fiamma di una lanterna. Ad un tratto, fuori, la neve
asciutta scalpitò sotto passi decisi, scanditi da un tossire catarroso.
Si spalancò l’ uscio e comparve ” Faina ” si scrollò il mantello mentre
Concetta gli stese uno sgabello. ” Guarda come sono conciato, sono
tutto bagnato, sono stanco, uno straccio, ditemi se questa è vita ”
disse soffiandosi sulle mani intirizzite. ” La volpe abbaia per tutti “,
gli rispose Bartolomeo. ” Allora è deciso, domani parti per Pietralta,
mi rendo conto del rischio ma abbiamo bisogno di soldi “. ” D’ accordo ”
acconsentì Faina ” ma se vado alla mente allo scorso dicembre , quando
penso al compare ” Mattè ” , gli spararono con l’ archibugio, per me
qualcuno ha ” cantato ” , se lo sono trovato in bocca appena dopo la ”
Madonna del Chiarino “. I doganieri più ne ammazzano, più denaro
prendono in premio” . Faina campava da bestia, anche se aveva accumulato
un piccolo gruzzolo, viaggiava prevalentemente da solo, con carichi
anche di trenta chili : sale, tabacco, petrolio, vino, distillati,
pellami, quel che capitava, non l’ avevano mai incastrato. Piccolo,
sghembo, le gambe arcuate, il muso affilato, un grosso cappello di
cuoio, forte e resistente sulla testa. Questa volta lo fecero ballare.
Per non sbagliare lo aspettarono su in alto, sulla ” Colonnetta “, lui
mollò il sacco arrischiandosi in una fuga disperata con la neve alla
cintola. Lo prese Aniello detto ” O’ Sàrracine “, un grosso gendarme ”
regnicolo ” con due tenaglie al posto delle braccia. Lo acciuffò per il
collo mentre Faina scalciava, sgraffignava, mordeva il suo aggressore
supplicandolo di lasciarlo andare. ” Tu sei il mio pane, porco boia ” !
disse il doganiere. Gliene dettero più di quante ne potesse sopportare
ma Faina respirava ancora. Spirò più tardi, mentre scendevano, sulla
strada de ” Li Cutture ” , sopra ” L’ Acquaviva ” prima di arrivare alla
Vecchia Dogana di Grisciano. Allora, per evitare spiegazioni e
guai, due doganieri lo abbrancarono sotto le ascelle, lo penzolarono nel
vuoto e lo gettarono nel Chiarino. Il suo corpo senza vita svolazzò
nelle acque limacciose del torrente in piena. Il giorno dopo Bartolomeo
ed altri amici lo ripescarono sotto Pescara del Tronto, tra gorghi
paurosi, addossato ad uno sbarramento di tronchi.
Vittorio Camacci