Mentre un tempo in montagna la gente viveva di agricoltura ed
allevamento, oggi sono pochissimi che fanno questa vita. In montagna,
più che altrove, il corso delle stagioni influisce sulla vita contadina.
Andavano garantiti la concimazione con il letame, l’ aratura con i
buoi, la semina, la raccolta rigorosamente a mano ed il trasporto, di
qualsiasi coltura si trattasse, sul dorso dei muli o con le traglie
trainate dei buoi. Il taglio ed il trasporto del fieno, una volta
rappresentavano una delle attività contadine più pesanti, mentre
oggigiorno sono agevolate dalle attrezzature meccanizzate. I periodi
invernali di non lavoro venivano utilizzati per attività di preparazione
degli attrezzi agricoli, importanti per mantenere nel tempo la loro
efficienza. In inverno i ritmi erano più blandi e meno faticosi. Si
svolgevano le operazioni di alimentazione e mungitura delle pecore e
delle mucche, si puliva la stalla e ci si occupava del rifornimento di
fieno e legna da ardere oltre a spalare la neve quando essa era
abbondante mentre le donne tessevano e cucinavano. In primavera i ritmi
si facevano più pressanti, si iniziava con l’ uscita delle greggi sui
prati che così venivano puliti e rasati per iniziarli alla fienagione. I
campi e gli orti dovevano essere concimati, arati, zappati e seminati.
Poi verso la fine della primavera il bestiame veniva portato negli
alpeggi ad alta quota. L’ estate era la stagione più impegnativa, in cui
i lavori più importanti erano la mietitura del grano e degli altri
cereali più la fienagione. La mietitura consisteva nella raccolta a
mano, con i “serricchie” ( falcetti a forma di mezzaluna), di grano e
cereali che venivano posti ad asciugare sotto forma di ” mannucchie ” (
fasci ) in “cavallette” ( 13 mannucchie incrociati a croce ) che poi
venivano trebbiati nell’ ” ara ” ( aia ) battendoli con i zoccoli dei
muli o con i ” fiaviglie ” ( bastoni con appendice snodabile ). La
fienagione consisteva nella raccolta a mano con la ” falce fienara ” (
formata da un manico dotato di due impugnature e da una lunga lama
ricurva semovibile alle estremità per ” ribatterla ” quando era ”
ammarrata ” cioè aveva la lama rovinata ) dei prati e l’ essiccazione
del fieno, quindi al suo trasporto con le ” reti ” sui dorso dei muli
attraverso il ” basto ” ed il successivo immagazzinamento nei fienili
con l’ aiuto delle carrucole. L’ autunno segnava la fine del ciclo
agricolo : avveniva la transumanza con il rientro del bestiama dagli
alpeggi, la vendemmia, la spremitura per la trasformazione del vino, la
raccolta dei frutti del bosco e la loro conservazione e prima che
nevicasse la sistemazione delle stalle. Come abbiamo già detto, un
tempo, tutte le attrezzature venivano costruite e riparate
artigianalmente in casa, gli attrezzi utilizzati erano principalmente :
la zappa ed i bidenti che servivano per smuovere il terreno; la vanga
che erano un tipo di pala usata per dissodare i terreni in pendenza; la
falce, come abbiamo già detto, che era l’ attrezzo per tagliare l’ erba,
dotata di lama ricurva e manici di legno che si “accodava” ( affilava )
con la pietra da cote che veniva tenuta umida all’ interno di un corno
rovesciato appeso alla cinta; il rastrello che serviva per la pulitura
dei prati e per ” incordonare ” il fieno che era dotato di un manico
lungo perpendicolare al ” pettine ” fatto di piolini di legno
incastonato; la forca ed il forcone usati per la raccolta del fieno , ma
anche per raccogliere e spandere il letame; la gerla che era una cesta
di vimini intrecciati, fatta a forma di tronco cono rovesciato, aperta
in alto, usata per trasportare fieno e frutti del bosco, era munita di
cinghie per poter essere portata sulle spalle; l’ aratro, che un tempo
era trainato dai buoi e dai cavalli, era uno strumento generalmente d’
acciaio usato per smuovere il terreno e prepararlo alle successive
lavorazioni; l’ erpice era lo strumento per sbriciolare le zolle
costituito da spuntoni d’ acciaio sotto un telaio trainato da buoi o
cavalli con corde di cuoio e catene. C’ erano poi mestieri molto
particolari come quello del carbonaio che si sviluppò dopo la seconda
guerra mondiale quando il gas non aveva fatto la sua comparsa nelle
abitazioni cittadine ed il carbone era l’ unico combustibile con cui ci
si poteva riscaldare e cuocere il cibo. I carbonai lavoravano sempre in
compagnia formando una squadra, si alzavano all’ alba e rientravano al
tramonto, se invece stavano lontano per tanto tempo si riparavano sotto
una capanna fatta di pali, cortecce e fronde. Per gran parte dell’ anno
essi, sfidando innumerevoli disagi, vivevano nella foresta tagliando
alberi di faggio, cerro, carpino, ornello e leccio, dai quali si
ricavava un ottimo prodotto. Queste piante venivano tagliate con le asce
e private dei piccoli rami per mezzo delle ” marracce ” ( roncole ).
Una volta preparato il legname vicino ” la spiazza ” , uno slargo
ricavato nel bosco, il carbonaio con dei legni incrociati a quadrato,
formava il camino. intorno ad esso la legna veniva posta verticalmente
in più strati, in tanti cerchi il cui diametro si riduceva salendo verso
l’ alto. Alla fine la catasta così disposta era ricoperta con terra
battuta e zolle erbose. I carbonai a questo punto appiccavano il fuoco
all’ interno facendo scivolare tizzoni e frasche nel camino che poi
chiudevano con una ” pelliccia ” ( zolla ). Attraverso questo
procedimento la legna bruciava senza fiamme, a temperature elevate, per
circa dieci giorni, sotto l’ occhio vigile dei carbonai che scrutando
vari particolari come il fumo, il trasudamento, il tiraggio, capivano
come regolare la combustione forando la carbonaia con cavicchi di legno
appuntiti. Solitamente cinque quintali di legna si trasformavano in un
quintale di carbone. Esso veniva raccolto in ” balle ” ( sacchi di juta )
e caricato sui muli, muniti di ” basti ” ( speciali selle che
permettevano di adattare i carichi sul dorso di questi animali ) per poi
trasportarlo al paese dove si vendeva il prodotto ai commercianti che
con vecchi camion venivano dalla città per acquistarlo. Sicuramente una
delle attività più diffuse era la pastorizia, attraverso essa si
generavano tre prodotti preziosi ed indispensabili per la sopravvivenza
delle comunità montane : il latte, la lana e la carne. Il latte oltre ad
essere consumato fresco veniva trasformato in formaggio pecorino. Il
latte filtrato veniva versato in una caldaia in rame stagnato per la
formazione della “cagliata”, e riscaldato alla temperatura di 35°/ 38°
C; quindi, si aggiungeva un cucchiaio di caglio ( stomaco dell’ agnello )
Dopo circa 30/40 minuti si aveva l’ indurimento del coagulo e si
rompeva la ” cagliata ” con uno speciale attrezzo di legno detto
” mistichiglie ” si procedeva alla formazione della ” forma ” ,
pressando e restringendo il prodotto in un’ apposita formella di legno
detto ” cercine “. La successiva salatura facilitava la maturazione del
formaggio e gli conferiva il suo tipico sapore. Per la stagionatura le
forme venivano disposte, nelle cantine, su tavole di faggio e lasciate
riposare per un periodo superiore ai sessanta giorni fino a oltre 6
mesi avendo cura di girarlo, lavarlo con il siero di scarto ed una volta
formata la crosta spazzolarlo ed ungerlo con olio d’ oliva e aceto per
evitare la formazione di muffe e parassiti. Invece, dal siero liquido
riposto sul caldaio e portato alla temperatura di 78° C veniva a galla
la ricotta riposta su speciali cestini di vimini e consumata fresca di
solito spalmata sul pane con un po’ di zucchero ( la mia merenda
preferita ). La preparazione della lana prevedeva tanti passaggi , prima
si portavano le pecore al fiume per lavarle poi si tosavano, dopo
avergli legato le zampe, con speciali forbicioni. Successivamente la
lana veniva lavata in acqua tiepida con sostanze sgrassanti e detergenti
e asciugata rigorosamente all’ ombra, poi veniva cardata e pettinata
con speciali pettini chiodati per districare ed ordinare le fibre
tessili. Questo nastro pettinato veniva trasformato in filo con un’
attrezzo chiamato ” lu fuse ” , che era un bastoncino, alto una
spanna, di forma ovoidale. I più forniti avevano apparecchi di legno
azionato a pedali chiamati ” filariglie ” che velocizzavano il movimento
del fuso. Il filo così ottenuto veniva poi tessuto in telai di legno
che intrecciavano il filato più lungo detto ” ordito ” , infilato nei ”
licci ” con quello più corto detto ” trama ” inserito per mezzo di una
” spola” . Le combinazioni dell’ intreccio erano tante e venivano
chiamate ” armature “, quella più comune era la tela ottenuta separando
gli arditi pari dai dispari facendovi passare in mezzo il filo di trama.
Questa della filatura/tessitura era uno dei mestieri artigianali più
diffusi che oggi sono scomparsi fagocitati dall’ industrializzazione e
dalla globalizzazione come il calzolaio che lavorava per produrre od
aggiustare scarpe rotte. Chi non ricorda calzolai storici delle nostre
zone come ” Purosangue ” di Spelonga o ” Tullie ” di Borgo. A quei tempi
le scarpe erano un costo ingente per le famiglie; quindi si facevano
riparare il più possibile. Oggi la produzione industriale di massa ed il
conseguente abbassamento dei prezzi ha fatto si che le scarpe rotte
vengono buttate via. Lo stesso discorso può essere fatto con le
sarte/rammendatrici in quanto l’ abito ha lo stesso destino delle
scarpe. Altri esempi sono quelli dell’ impagliatore, dell’
intrecciatore di vimini, del rilegatore, ” lu ferrare ” ( il fabbro che
ferrava i cavalli ), ” lu materassare ” ( il materassaio ) , ” lu ‘
mmastare ” ( il sellaio ) , ” l’ arrutine ” ( l’ arrotino ) , ” lu
bottare ” ( il bottaio ), ” lu stagnare ” ( il ramaio che riparava gli
oggetti in rame ) e tanti altri mestieri antichi ormai scomparsi.
Vittorio Camacci