Dalle mie parti lo conoscevano tutti, per sentito dire, benché nessuno lo avesse mai avvistato e tantomeno incontrato. Parecchie squadre di bracconieri gli erano corsi dietro su e giù per i sentieri che abitualmente percorreva, oltre le piante di faggio del bosco mentre segnava il suo territorio urinando ed ululando. Cercava prede con astuzia e così facendo seguiva percorsi sinuosi sulle coste della montagna. Spesso avevano avvistato la sua presenza anche vicino al paese e poi la mattina disperati, alcuni pastori, guardavano con le mani nei capelli le pecore orribilmente scannate. Era enorme, due zanne simili a lame spuntavano quando ringhiava e le possenti zampe lo spingevano in lungo ed in largo alla ricerca di cibo. Aveva una femmina che spesso lo seguiva nelle scorribande o restava nascosta in un rifugio, una grotta riparata dalle fronde di un cerro, quando aveva i piccoli. Era coraggiosa ed aveva stipulato con lui un patto di solidarietà sapendo che da un lupo così sarebbero nati cuccioli forti e potenti. Era dura la vita per i lupi tra queste montagne. I bracconieri, appena le maglie dei forestali si allargavano, si organizzavano in battute che spesso sembravano seguire un piano di guerra e per loro il destino era segnato, in una stagione o nell’ altra. Certo avrebbero potuto salire più in alto, verso Pizzo di Sevo, seguire la dorsale dei monti e magari spostarsi a sud verso il Gorzano o addirittura il Gran Sasso. Ma qui le prede erano abbondanti, e gli armenti ancora consistenti si facevano un richiamo irresistibile. Quante volte nascosti sulle alture, erano rimasti quasi attoniti a guardare i movimenti dell’ uomo e dei suoi cani, cugini stupidi che qualche volta avevano affrontato, sbranandone più di uno. La leggenda del lupo si era ormai diffusa in tutto il territorio, da Acquasanta fino ad Amatrice. Nessuno in realtà l’ aveva mai visto ma tutti raccontavano di quanto fosse grande ed implacabile. Lo deducevano dalle impronte, dallo scempio che faceva sulle prede. Al contrario dei suoi simili non viveva in branco. Gli occhi gli brillavano, specialmente la sera, quando il sole tramontava e sembrava incendiare i Monti Sibillini, laggiù lontano. Soprattutto a fine autunno quando la stagione fredda portava aria fresca, iniziava a calare verso il paese, si avvicinava sempre più alle case. Nei suoi pensieri quel disco infuocato era un dio, che dava la vita a tutto ciò che lo circondava. Vederlo tramontare tra i monti gli dava un senso di solitudine, una strana malinconia. Gli tornavano in mente i ricordi di quando era cucciolo, quando dopo un cammino durato mesi, la madre lo aveva portato in questo Paradiso, attraverso montagne, dirupi e boschi immensi. Era diventato il re della Laga Nord, lui che non aveva nemici naturali, tranne qualche grosso cinghiale acerrimo combattente che usava le zanne come sciabole ed in qualche occasione lo aveva costretto ad indietreggiare lacerandogli la pelliccia. Eppure lui detestava tali combattimenti, in fondo non erano nella sua indole, avrebbe preferito cacciare tranquillamente nei verdi prati d’ altura mentre si attardava a seguire il corso del sole verso il sonno, muovendosi qua e là affinché gli alti faggi del bosco disegnavano i contorni di Passo il Chino, sopra le valli. Una sera era tranquillo, saliva trotterellando, si era concesso un certo rilassamento dei sensi, era forse felice, il gusto soddisfatto dalle prede ed una giornata che non si vedeva da tempo. Spostò il muso a destra, la neve copriva i laghetti di Poggio D’ Api, curvò allora verso sinistra passando sotto la vena de lu Puije. Successivamente, il sole nascondendosi dietro le nuvole, rese la vista meno chiara, gli occhi si inumidirono, era così assorto che non sentì il rumore di un ramo spezzato, poco dietro di lui. Non si accorse neanche del rumore metallico del ” cane ” che si armava, portando il martelletto in posizione di sparo. Girò il capo e vide la canna del fucile che lo guardava implacabile. Voltò il muso verso Pizzo di Sevo, non c’ era modo di scappare, era troppo tardi. Guardò il sole fare capolino tra le nuvole, lanciando un lampo nel cielo, quasi a voler nascondere quello del fucile che gettava il suo proiettile di morte veloce e potente contro la sua spalla, aprendola senza rispetto, affamato del suo cuore libero. Sentì un dolore lancinante, inimmaginabile ed una spinta in avanti che non riusciva a contrastare. Cadde a terra con un guaito rabbrividente, ruotando il muso con l’ ultimo sforzo che gli era possibile guardando il cielo che lentamente diventava nero, oscuro, dedicando l’ ultimo pensiero a quel sole che non avrebbe più visto.
Vittorio Camacci