Il mio bisnonno Domenico era nato nel 1836, dal fisico imponente e corpulento era descritto da tutti come una forza della natura. Divenne, già quindicenne, un giovane montanaro ribelle, forgiando nel suo carattere indomabile durezza e forza, abituato com’ era a fatiche sovrumane. Intorno a vent’anni d’età divenne un leader, grazie alla sua forza ed intelligenza non comuni, era uno dei pochi montanari capace di leggere e scrivere pronto a ribellarsi, quando capitava l’ occasione, all’ arbitrio dei potenti agrari oltre a vecchi e nuovi feudatari vissuti tra Papi e sovrani che reclamavano sempre diritti senza cedere nulla in cambio. Sin dall’ adolescenza si era nutrito di idee religiose e quindi si schierò sempre dalla parte della Chiesa e dal Papato , che allora governava le nostre terre, ricevette un posto da corriere pontificio. Anche per questo giurò e si impegnò a difendere lo Stato Pontificio dalle prepotenze della Guardia Nazionale che tentava di sedare le rivolte popolari. Tra il dicembre del 1860 ed il gennaio del 1861 divenne un ausiliario pontificio unendosi alla banda di Giovanni Piccioni, detto Pannanzò, priore del comune di Rocca di Montecalvo e strenuo difensore dello Stato della Chiesa. Gli venne consegnato un fucile a percussione e gli furono corrisposti come ricompensa 22 scudi romani al mese. Tutta la montagna era un pullulare di briganti, tanto che la zona fu definita la ” Vandea” italiana. Domenico, a capo di una squadra di sabotatori, si distinse nelle zone dell’ Alto Tronto. Indossava una giacca di castoro nero, un gilè, pantaloni di felpa neri, stivaletti di vitello, un grosso cappellone di cuoio e due grandi orecchini d’oro ornavano i lobi delle sue orecchie. Fu un degno capobanda anche perché conosceva a menadito i sentieri ed i rifugi della montagna. Riuscì ad accumulare anche un piccolo tesoro che nascose furbescamente in più punti del territorio. Si dice che nel suo podere tra i massi de ” Lu Rucchitte ” aveva quattro ripostigli nascosti nelle grotte della ” Vena “. Sul finire dell’anno 1861 accadde un episodio che cambiò definitivamente il suo carattere esuberante e che forse gli salvò la vita. Grazie al suo aspetto fiero ed imponente, Domè, così era chiamato il mio bisnonno dai paesani, era visto come un leader carismatico e quindi veniva spesso richiesto come padrino nei battesimi come segno di rispetto e di dedizione. Quindi quando i D’Ambrosi, degli onesti contadini, lo chiamarono per fare da padrino, non negò il favore, era uso accettare tale onere nella piccola comunità perché si riteneva che se un uomo ti chiedeva di diventare suo ” compare ” bisognava onorare questa scelta per riconoscenza. In chiesa quando gli porsero la neonata, Domè la prese con goffa tenerezza tra le sue enormi mani, la guardò con attenzione e notò i bellissimi occhi verdi della piccola. ” Che bella frichina cumpà ! ” disse rivolgendosi al padre. ” Quanne che sarà signurina me la spose ! ” . Tutti risero tranne il compare ed il prete che annui solo con il capo deglutendo. Lui conosceva bene Domè ed aveva anche l’autorità necessaria per contraddirlo ma sapeva anche che quell’uomo non scherzava mai. Le notti ed i giorni successivi Domè non riuscì a chiudere occhio, si vedeva sempre davanti quel fagottino piagnucolante e due piccoli bellissimi occhi verdi. Perse la sua proverbiale calma e lucidità, divenne un altro, abbandonò la rivolta e si ritirò nel suo podere tra i massi della ” Vena “. Quando la bambina divenne adolescente, Domè ormai era un zitellone ultraquarantenne e con la sua enorme mole si parava davanti a tutti i corteggiatori di Antonia. ” Guai a chi la tocca ! ” Tuonava : ” Chi la tocca se la veda cchi me ! “. Ormai la sua era diventata un’ossessione e tutte le domeniche si appostava davanti il portale della chiesa di Santa Maria in Collepiccioni ad aspettare la ” Pucichina “, così era soprannominata Antonia nel suo rione per il suo vitino da vespa e le sue gambe magroline, che si recava alla messa del mattino. All’ età di 25 anni la ” Pucichina ” era ancora zitella, possedeva tante qualità ma nessun ragazzo aveva osato chiederla in moglie, ormai non tanto per paura ma per timoroso rispetto verso quel gigantone teneramente innamorato. Così, quando Domè con il suo cappellone in mano, ormai cinquantenne con gli occhi ancora brillanti ed il volto arcigno e bonario, varcò la soglia della casa del “Compare D’ Ambrosi” per chiedere la mano di Antonia, il padre della ragazza non riuscì a negare il consenso. Ormai la sua ” Pucichina ” era una zitella venticinquenne e quella era, forse, l’ ultima occasione per poterla maritare. Domè e la Pucichina ebbero malgrado tutto una buona vita, crebbero otto figli ai quali insegnarono la lealtà ed a non tradire mai la parola data: Agnese la primogenita nata il 2 luglio del 1888 ( emigrò nel 1910 negli Stati Uniti con il marito Giosuè Schiavoni, fu sempre casalinga felice, ebbe come la madre otto figli e visse in varie cittadine della Pennsylvania. Rimase vedova nel 1972 e morì il 15 marzo del 1990 all’eta di 102 anni. E’ sepolta vicino al marito nel cimitero della città di Hershey ) . Carolina nata nel 1890 ( visse sempre a Spelonga dove sposò Eugenio Ciancotti dal quale ebbe 5 figli ). Rosa nata il 20 gennaio 1892 ( emigrò negli Stati Uniti nel 1916 imbarcandosi a Napoli sul Duca D’Aosta l’ 11 novembre del 1916 arrivando nel porto di New York il 26 dello stesso mese. Il 16 aprile 2017 a Steelton in Pennsylvania sposò Edoardo Schiavoni di quattro anni più giovane dal quale ebbe sei figli. Rimase vedova nel 1961 e morì il 30 gennaio 1982 a 90 anni. Riposa insieme al marito allo Hershey Cemetary ). Biaggio nato nel 1895 , fu il figlio più bello ed anche più sfortunato, amante della bella vita e delle belle donne, un autentico play-boy incallito perse la vita nel 1923 a soli 28 anni a New York in circostanze poco chiare. Natale nato ovviamente il 24 dicembre 1896 ( fu soldato nell’ Esercito Italiano dal settembre 1916 fino al 20 maggio 1920. Nel novembre dello stesso anno emigrò negli Stati Uniti dove nel 1925 sposò Elisa Palaferri di un anno più giovane. Ebbero quattro figli. Natale fu un onesto lavoratore nel settore delle costruzioni e rimase vedovo nel 1978. Morì il 7 settembre 1985 a Hershey in Pennsylvania all’età di 88 anni ) . Berardino, mio nonno, nato il 29 dicembre del 1900 ( carabiniere durante il ventennio fascista, prima nella caserma di Isola Gran Sasso poi in quella di Urbisaglia , sposò Francesca Schiavoni nel 1924 dalla quale ebbe quattro figli. Grande appassionato di romanzi d’avventura, teatro e cabaret, rimase vedovo nel 1970 e morì a Spelonga il 9 febbraio 1980) . Agostino nato nel 1903 e morto prematuro a soli due anni nel 1905. Cesare l’ultimogenito nato il 17 ottobre del 1906 ( rimase nella casa paterna e nel 1933 sposò Domenica Camacci dalla quale ebbe due figli ) . Mio nonno Berardino mi raccontava che da monello ogni volta che combinava una mascalzonata, il papà ormai vecchio, non aveva la forza di rincorrerlo per sculacciarlo ed allora gli gettava il grosso cappello di cuoio come un boomerang. Domè morì il 17 giugno del 1928, visse fino a 92 anni, un vero record per l’epoca. Possiamo immaginare che l’aiuto e la compagnia di quella vispa e giovane moglie, forse, gli abbiano giovato nell’invecchiare lentamente. Nel paese è ancora viva la sua leggenda e si dice che ad 81 anni gli siano rispuntati alcuni denti e ricresciuti i capelli. Lei, la mitica ” Pucichina ” sopravvisse alla sua dipartita esattamente altri 25 anni e morì il 12 giugno del 1957. Si racconta che fino alla fine non mancò mai alla Messa della domenica indossando eleganti vestiti sul vitino da vespa e bellissime scarpe rigorosamente con tacco alto che aveva sempre amato indossare forse per sentirsi meno piccola accanto al suo Domè.
Vittorio Camacci